Nel giorno prima della “Luna Nuova”

Impressoni sul concerto finale di Fabrizio Zanotti tenutosi venerdì 4 maggio a Ivrea e sul suo ultimo disco “Luna Nuova”

No, il bello più profondo e degno dell’amore
pare incline a corrompersi,
è sempre vicino a morire,
e la cosa più bella, le note musicali,
che nel nascere già fuggono e trascorrono,
sono solo soffi, correnti, fughe
circondate di aliti sommessi di tristezza…
(H. Hesse, Scritto sulla sabbia)

Con il concerto di Fabrizio Zanotti al cinema Politeama di Ivrea, il 4 maggio si è concluso il ciclo delle giornate che annualmente l’Amministrazione e l’Anpi di Ivrea dedicano al 25 aprile. A differenza delle altre volte in cui il noto cantautore eporediese si è esibito davanti ai suoi concittadini (ad esempio al liceo Gramsci e al teatro Giacosa, nel 2012), stavolta la sua band presentava una formazione più ridotta, ma proprio per questo più intensa, più concentrata ed essenziale. Oltre al basso elettrico di Silvano Ganio Mego e alle percussioni di Alain Teodori, al posto della chitarra elettrica e delle tastiere c’era il solo violino amplificato di Anais Draco, il quale riusciva a conferire ai brani contemporaneamente sia il gusto malinconico della musica klezmer sia quello nostalgico dell’anima folk-rock, specie nelle divertenti improvvisazioni. E c’era soprattutto la bella ed emozionante voce narrante di Antonella Enrietto, le cui letture da pagine storiche scelte introducevano o riflettevano sui brani eseguiti dal cantautore. Oltre a riproporre alcuni suoi (ormai) classici presenti in Sarò libero!, del 2012 (E c’è una storia che ci piace ascoltare, Fischia il vento, La mia divisa, Il ponte, Bandiera, Il mare se bagna Milano, Chini Marco, e gli immancabili Poco di buono e Bella ciao), Fabrizio ha eseguito anche alcuni pezzi del suo ultimo lavoro, Luna nuova (2018).
In esso, certo, l’artista continua a raccontare le criticità della realtà contemporanea attraverso alcune figure emblematiche come Mimmo, uno di quei tanti ragazzi avvelenati dallo spirito della competitività e pieni solo della propria egoica vacuità che la società prima o poi punisce (Il goleador); l’artista che non si piega e non si arrende (Konta il Greco); il lavoratore rassegnato alla sua alienazione (Una giornata piena); l’io morigerato e borghese, l’io di tutti noi, abitato dalla bestia del razzismo (La bestia); l’industriale messo in ginocchio dalla crisi e subissato dal chiacchiera corrosiva della gente stimolata dai media (L’industriale); l’individuo che spera ancora di trovare un legame, una somiglianza, una affinità, un che di solidale che possa accomunarlo agli altri suoi simili (Autunno).
Ma in questo suo ultimo cd si avverte soprattutto un forte desiderio di fermare la folle corsa del tempo; almeno di rallentarla, per far sì che qualche attimo immenso vissuto con qualcuno o da qualcuno possa fare ritorno a se stesso al fine di far rinsavire questo dissennato presente che ci sfinisce, ci disaffeziona e che si vive con disagio: “Che dura non trovare più un senso”, “restare in pace con se stesso”, sentirsi “fuori tempo”, “farsi ascoltare”, “faticare per arrivare… dove?” (Fuoritempo). In esso si sente insomma la necessità di dilatare l’istante al fine di avere più tempo per poter riflettere su quanto in questo nostro presente sfuggente intanto accade (Se giusto è). Davvero commovente, tra l’altro, l’Halleluja di Jeff Buckley intonato con molto pathos da Fabrizio per le vittime delle atrocità naziste.

Solo che, ahimè, viviamo in un tempo in cui purtroppo nessun Dio, fra i tanti di cui pur disponiamo, ci può più salvare, perché abbiamo superato il limite. E ciò anche se le creature continuano ad innalzare lodi e preci al creatore nel tentativo di farsi perdonare dei misfatti con cui hanno malignamente compromesso il bel prodotto della sua benigna creazione. Anche oggi, infatti, come nel tempo antidiluviano, la malvagità degli uomini è grande sulla terra, perché ogni disegno concepito dal loro cuore non è altro che male. Evocando l’Eliot dei Four Quartets, “distrattamente [l’uomo] – ci dice Zanotti in Oltre il limite – perde il senso che il mondo contiene” . Un senso che talvolta possiamo provare dinanzi all’illimitato e silente dispiegarsi dell’universo. Solo esso, forse, ricordavano spiriti luminosi come Leopardi e Tolstoj, può consolarci ancora, può confortare i mortali e i morenti, nella dolce quanto vana attesa del “giorno prima di una luna nuova” (Luna nuova). Forse solo a questo senso di un eterno cosmico possiamo ancora affidarci e aggrapparci per non lasciarci risucchiare dal gorgo del nostro miserabile presente, visto che oramai non solo il futuro, ma anche il passato sembrano compromessi: non solo la speranza e l’attesa, ma anche la memoria e il ricordo.

Ma si può fermare il tempo? Si può dire all’attimo “fermati!” No. E poiché l’istante del presente è sempre intrattenibile, sfuggente ed evanescente, non possiamo neppure tentare di capire quello che si sta vivendo e che ci sta accadendo. Non solo perché l’inarrestabile farsi della storia, come crediamo di sapere, trascina via tutto consumandolo, ma soprattutto perché quando e mentre viviamo, nell’istante in cui viviamo, non ci accorgiamo di esistere, di essere nati, di essere al mondo, di essere. È semmai dopo, pensava Hegel, après coup, dagli angoli più remoti della loro terra densa di dolente memoria, che i sopravvissuti alla lotta eterna con quell’Inarrestabile, ammesso che vi riescano, possono ricordare e inverare quanto hanno vissuto e in parte superato. E verrà dopo anche il tempo della nostra responsabilità, quella di continuare a credere in quei loro ricordi, in quelle loro ricostruzioni personali e personalizzate, dietro le quali e al fondo delle quali più che le loro parole, sta la loro persona, il loro essere. Ma per quanto abbiano resistito a quell’Inarrestabile, verrà pure il tempo in cui quell’Inarrestabile dissolverà anche questo loro pur tenace essere. E con esso, anche, purtroppo, le loro parole. “Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno / per cui fatica sotto il sole? Una generazione va, una generazione viene / ma la terra resta sempre la stessa”, diceva un tempo il Qohèlet. Speriamo! Diciamo noi oggi. Hallelujah! Grazie Fabrizio.

Franco Di Giorgi