Noterelle personali sul Covid 19

Dal cortile dove abito, Ivrea ovest: il virus come morte, come verità, come libertà, come speranza

Il virus e la morte

Il corona virus è il volto nuovo della morte, l’ultima sembianza, sotto forma di pestilenza, che il ghigno della signora dai denti verdi, e dalle dita grifagne, ha deciso di assumere. La morte deve lavorare, trovare i suoi spazi, contribuire al ciclo fatale della vita, deve portarsi via la sua quota di vittime. L’utopia dell’immortalità fisica trova una nuova risposta nella pandemia che sta bloccando il pianeta. Diciamo che, forse, il corona virus ha una sua giustificazione fisiologica in un mondo che di morire non ne vuol più sapere!
Il virus è solo l’ultima strategia di sopravvivenza che la morte mette in atto. La morte non può morire se non nella vita ma, facendo parte della vita, ha un suo diritto di cittadinanza; non sconfigge la vita, ma le imprime una svolta. La vita non balla da sola e nemmeno la morte. Danzano insieme sull’orlo del nulla.
Ma la morte, come sulla scacchiera del film di Bergman, “Il settimo sigillo”, ha l’ultima parola, ci mette di fronte alla nostra grande paura e ci costringe al salto finale verso l’ignoto. Il Covid 19, che non conosciamo, è la nuova occasione di confronto con l’ignoto e quindi con l’idea stessa della morte.

Il virus si porta via prevalentemente le persone anziane, quelle più deboli, le prede più facili, come il feroce predatore della savana che artiglia il cucciolo di antilope. Durante questa pandemia, le persone sono diventate numeri, vittime e statistiche da conteggiare nel progredire del morbo. Persino le casse da morto, come le persone all’interno, sembrano più uguali, quelle di legno pregiato e intarsiato, quelle dirottate sui camion militari verso i centri di cremazione meno impegnati nel lavoro di restituirci alla polvere, quelle calate nelle fosse comuni.
Mi hanno colpito molto le fosse comuni del Brasile, le bare candide e la terra rossa, aperta come una ferita, che le accoglieva. Le bare sembravano ossa di legno bianco come decorazioni nella criniera fulva di un leone.

Io non voglio dire che la vita non vada difesa e che alla morte si debba lasciare ampia libertà di manovra, ma quando ci si interroga su cosa ci insegnerà questa pandemia mi piacerebbe che la morte fosse riconosciuta più che come nemica, come maestra.
Lo scrittore Antonio Scurati, autore di quel libro di successo che si intitola “M”, ha detto una cosa bellissima. Ha detto che nessun miglioramento ci sarà, nel “dopo virus”, se non partiremo dalla commemorazione delle vite che ci hanno lasciato. Ecco, questa è la prima cosa da fare prima che l’orgia degli aperitivi, delle discoteche e dell’andirivieni insensato dei suv ricominci a travolgerci.

Il virus e la verità

Ci sono diversi modi di non dire la verità, cosa peraltro oggettivamente difficile non solo da individuare, ma anche da perseguire. Uno è quello di mentire, un altro è quello di omettere, un terzo è quello di lasciare che tutti, democraticamente e visceralmente, dicano la loro verità.
Quando tutti dicono tutto e il contrario di tutto si instaura facilmente un regime confusionario in cui la verità prende le distanze come una bella donna dai tentativi di una seduzione maldestra. E’ quello che sta succedendo in questa epoca di corona virus, dove l’informazione si inquina a tal punto da spacciare per notizie le opinioni e per fatti comprovati le supposizioni.
Nel caos mediatico, che si scatena sui social, si può individuare una pandemia parallela che offre il fianco a dichiarazioni fasulle e a strumentalizzazioni di ogni genere. Dov’è dunque la verità sul Corona virus? E se non si conosce la verità come si può identificare la menzogna sul Covid 19?

Una cosa che mi ha colpito è quella pseudo astuzia sottile, ma sarebbe meglio dire quel sotterfugio dialettico, quella specie di scadente aporia che cercava di distinguere i morti PER corona virus dai morti CON corona virus, favorendo o denigrando tesi o antitesi tra allarmisti e negazionisti.
Come dire: se un malato di cancro cade dalle scale e muore, la causa della morte è il cancro.
I professionisti della parola, gli artisti della dialettica, mi ricordano quegli avvocati spregiudicati che si battono per capovolgere le sentenze, di confessata colpevolezza, con la loro altezzosa e ben lubrificata oratoria. La verità necessita di maggior silenzio. Almeno questo è ciò che a me pare.

Il virus e la libertà

Il corona virus sta dando un enorme contributo alla comprensione della libertà. La reclusione forzata in casa, il disagio che ne deriva, le difficoltà che si incontrano in nome di un ricorso alla prudenza in difesa della salute pubblica, per altro sancito da provvedimenti di governo, è un’occasione per capire, più a fondo, il valore autentico della libertà.
C’è un detto che recita: “Il saggio impara anche dagli errori altrui, lo stolto solo dai propri”.
Ecco, nel nostro umano infantilismo, nel sonno mentale che ci pervade, l’apprendimento, propedeutico al cambiamento, spesso arriva soltanto attraverso l’esperienza della perdita. Attraverso la malattia capiamo l’importanza della salute. Attraverso la segregazione, comprendiamo l’importanza della libertà.
Sono concetti banali, ma credo che in un periodo come questo si possano ribadire.
Stare in casa non è soltanto l’occasione per leggere dei libri, rivedere vecchi film, fare il corso online che sognavi o girare un filmino con il telefonino per documentare come passi la giornata. Stare in casa è l’occasione per ripensare al concetto di libertà, quella che non si limita alla frequentazione del bar o dello stadio.

Al momento, ho principalmente osservato lamentele a prescindere, ho visto dipingere scenari foschi e paventare l’arrivo di nuove dittature in cui la nostra libertà diventerà un sogno smarrito. Innanzitutto penso che, in questa emergenza, bisognerebbe chiedere ai contagiati che cosa pensino della mancanza di libertà e non agli annoiati che, tutto il giorno, pantofolano tra cucina, balcone e salotto. Bisognerebbe chiedere ai disabili come vivono la loro restrizione di libertà, a quelli che non possono camminare o vedere, se non altro per ridimensionare eticamente il nostro senso di frustrazione.
Ah certo, ci sono anche altre situazioni al limite dell’insostenibilità. Penso a chi vive in quaranta metri quadri, chi non ha risparmi, chi ha perso il lavoro, chi è senza casa, chi ha problemi psichiatrici, chi sarà rovinato o peggio è già rovinato dalla crisi economica. Tutti problemi seri a cui occorre dare risposte serie.
Qual è il compromesso giusto tra libertà personale e diritto alla salute? E’ chiaro che se sono confinato in casa e non ho più soldi per mangiare, io esco assumendomi il rischio di contraddire la legge perché l’impellenza fisiologica è più forte del “rischio salute” ed impone un’ammissibile trasgressione. Come dire:“Io collaboro con la legge, ma anche la legge deve collaborare con me!”.

Il virus è l’occasione per imparare, ma imparare non è volontà né aspirazione di tutti. Il virus ci cambierà? No, perché fino a quando sarà solo la paura a cambiarci si tratterà sempre di un finto cambiamento. Perché quest’ultimo, da apparente, diventi reale occorre sostituire alla paura il coraggio. Solo in pochi, come sempre avviene, riescono in questa sfida. Coltivare il coraggio è il vero prezzo della libertà e del cambiamento, altrimenti sguazziamo solo nel campo della retorica a buon mercato e sostanzialmente priva di impegno.

Ho notato che un risentimento comune tra i segregati in casa, che si sentono detenuti, è quello di invocare la rivoluzione e le uscite di piazza spingendo sempre gli altri a cominciare per primi.
Questi non sono i piccoli imprenditori alla canna del gas né i lavoratori disperati e senza reddito, ma gli spavaldi ribelli da tastiera, impazienti di destituire il governo, qualsiasi esso sia, per ritornare esattamente allo stato di pre-virus. Sono quelli che, in genere, reclamano una politica più severa e un maggior controllo sociale e che, però, se queste norme vengono applicate a loro stessi, anche in termini di riduzione delle libertà personali, sono i primi a contestarle e a rifiutarle.
Per tutti costoro avrei un modestissimo suggerimento: “Anonimi rivoluzionari da tastiera, e da reddito garantito, STATE A CASA!” – “Ma non fatelo solo adesso, fatelo quando vi permetteranno di uscire, fatelo quando avranno bisogno di voi nelle platee del consumismo universale. STATE A CASA, dimenticatevi di usare la jeep per andare al supermercato, partecipate in poltrona, e in modo non violento, al cambiamento che volete per il mondo e forse, se sarete in tanti e organizzati, qualcuno si accorgerà delle vostre ragioni piuttosto che delle vostre lagnanze!”

Il virus e la speranza

Come nel libro di Albert Camus ”La peste”, il Covid 19 cambierà soltanto di nome, ma la peste ci sarà sempre. Neutralizzato un virus ne arriverà un altro, un altro nome in codice con nuove vittime, nuovi pericoli e nuove insicurezze. La peste arriva anche per diffondere nuova conoscenza, per aprire gli occhi sulla realtà del mondo. Le crisi comportano, per chi lo sa cogliere, il dono della coscienza. Il vero vaccino e la vera cura stanno nell’opportunità di capire.
Adesso l’aria è più pulita e l’acqua dei fiumi è più pura. L’erba ricresce più verde e la foresta respira. Se non prendi l’aereo, per andare a fare “shopping” (sigh!) a New York, ma puoi intravedere i caprioli dalla finestra cosa scegli?
A cosa sei disposto a rinunciare? Qual è lo sforzo che sei pronto a compiere per preservare il buono che il corona virus ha portato con sé? Cerca di darti una risposta sincera puntando sulla tua testa invece di scopiazzare quella di Sgarbi o di Porro o di Fusaro o di altri intellettuali del video o del web e, soprattutto, non dimenticare, non dimentichiamo tutti insieme, le nuove vittime che il corona virus ha causato. Nel loro nome e nel loro ricordo dobbiamo trovare la strada verso una migliore chiarezza di idee.
La speranza è una conquista che il corona virus autorizza, è l’aquilone che la bambina, nel cortile del vicino, fa decollare nel vento, è la giornata di fiori e di sole che illumina il giardino, anche se nell’aria risuonano ancora le sirene della Croce Rossa.

Pierangelo Scala