Per il cinquantenario del ‘68

Wolle die Wandlung! Ama il mutamento! incita il poeta in uno dei suoi magnifici Sonetti. Altrettanto importante, ritengo, sia però un’altra esortazione, parallela alla prima: Ama la differenza! Ama la diversità! In particolare, di questa diversità bisognerebbe amare il fragile, misterioso e invisibile legame che, una volta riconosciuto e condiviso, consentirebbe a tutti gli esseri umani di poter coesistere insieme liberamente nel rispetto silente e religioso che li unisce nella loro essenziale differenza. E si ama la differenza quando la si desidera, la sia vuole e soprattutto quando la si vive al modo dei bambini.
Specie in certi periodi, la storia ha rivelato a chiare lettere, scritte con il sangue, che gli uomini non hanno ancora imparato e che anzi continuano a non voler imparare quel genere di amore che nella lingua greca si dice agápe. Anche a questo amore per l’umanità accennava sempre quel poeta in qualcuna delle sue intense lettere. Eppure, per quanto brevi, ci sono stati nella storia passaggi illuminanti – penso ad esempio allo stato nascente cui ha dato impulso il movimento culturale giovanile del ’68, del quale quest’anno ricorre il cinquantenario – in cui quell’agápe era stata assunta come una parola fondamentale, simile a quelle che Buber collocava nelle sue coppie di parole. Accanto e in relazione con peace (eiréne in greco) compariva infatti love. E peace and love era uno dei modi con cui in quel periodo i “figli dei fiori” annunciavano la loro “buona novella”, un futuro regno di pace e amore che in parte era già presente in quel gioioso movimento liberatorio. E ciò proprio nel momento in cui, ad esempio in Vietnam, i retaggi della storia si andavano facendo più roventi.
Come risultato di uno scontro tra due ideologie contrapposte, ogni guerra dimostra sia la mancata acquisizione dell’agápe, sia l’allontanamento dal paolino sentiero della pace (hodós eirénes). Nelle sue lettere (scritte in greco) l’apostolo delle genti ha saputo individuare nell’hamartía, nel peccato, quella mancanza e quell’erramento, ma ha saputo anche cogliere in profondità l’intima relazione tra pace e amore, quella stessa che, come si è visto, circa duemila anni dopo, verrà riproposta entusiasticamente dal movimento del ’68. Per poter riconoscere il sentiero della pace, quell’apostolo ebreo aveva detto inoltre che era necessaria l’hyperbolén hodón, la «via per eccellenza», ossia il sentiero straordinario dell’agápe, di quell’amore che egli, quanto a importanza, anteponeva persino alla fede e alla speranza. «Tutte le vostre azioni – scriveva infatti – si facciano nell’amore» (1Cor 16, 14). Perché «[t]utto ciò che non viene da convincimento di fede è peccato» (hamartía) (Rom 14, 23). E, confidando in un futuro speranzoso e promettente, la gioventù del ’68 agiva all’insegna di quell’amore libero e si incamminava fiduciosamente assieme agli altri, nei quali amava e ricercava sempre la differenza, lungo il percorso straordinario dell’agápe che conduce all’eiréne. Un’agápe sostanziata dalla cháris, che, tradotta solo come “carità”, perde tutto il suo peso e il suo valore. Giacché la cháris agapica ha a che fare con la grazia e con la bellezza, con la leggiadria, l’incanto e l’amabilità; come pure con la gioia, la festività, la letizia, il gaudio, la benevolenza, la compiacenza intesa soprattutto come puro e disinteressato piacere della condivisione fraterna, della compartecipazione attiva al collettivo fatto di differenze, e tutto ciò nel rispetto e nel riguardo per gli altri e per le cose.
E se è a Paolo di Tarso che si deve questo accostamento “rivoluzionario” tra pace e amore, a un altro discepolo di Gesù si deve l’esortazione sia ad amare quella differenza, sia a conoscere e a riconoscere se stessi e gli altri in un mondo vissuto, direbbe ancora quel poeta, come luogo aperto e incustodito; ove tale conoscenza sarebbe da intendere come condizione indispensabile per accedere al regno di Dio, e ciò non solo al di là di quella differenza, ma proprio grazie ad essa. Inoltre, se è probabilmente a causa di questa sollecitazione che il vangelo di Tommaso venne stigmatizzato come apocrifo, ossia non degno di rientrare fra i canonici, a maggior ragione andava relegato tra gli apocrifi anche il vangelo di Maria di Magdala, nel quale, secondo l’interpretazione di Jean-Yves Leloup, è rintracciabile un terzo elemento, oltre alla pace e all’amore per la differenza e per la conoscenza, un elemento che serve a collegare e a unire gli altri due: l’immaginazione. Questa va però intesa come pneuma, ossia come soffio (ruaḥ, nome di genere femminile in ebraico), come spirito mosso da un desiderio inestinguibile di sapere, come un pensiero immaginale (epínoia) capace sia di avvicinare al divino mediante immagini, simboli e parabole, sia di riconoscere il sentiero della pace e con esso anche l’Altro, considerato come Dio umanizzato, secondo il principio cristiano dell’amare il prossimo come “te” stesso, ossia come Dio medesimo. Perché è sempre un po’ Dio che si uccide ogni volta che si violenta e si sopprime un Altro che ci è prossimo. E se, come afferma Leloup, la ruaḥ costituisce lo spirito immaginale contenuto in un vangelo «ispirato da una donna», c’è un’altra parola che in ebraico sintetizza quanto si è qui detto a proposito del ‘68. È il lev, che significa sia il cuore sia l’intelligenza. Solo la loro conciliazione collaborativa, radicata in un’agápe sostanziata dalla cháris, potrebbe generare la pace e quindi anche l’amore per la differenza. Ama dunque la differenza! Ama il cambiamento! A partire dal tuo! Ama la trasmutazione agapica del ’68!

Franco di Giorgi