Rivolta nelle vie del lusso torinese

Perché le violenze di lunedì 26 ottobre a Torino non dovrebbero stupirci

Per capire i fatti avvenuti la sera di lunedì 26 ottobre a Torino, dare una rapida occhiata ai titoli dei giornali non basta. Bisogna cercare di avvicinarsi, di vedere oltre la bolla dei media e dei social in cui tutti viviamo immersi, altrimenti continueremo a non capire.
Iniziamo col dire che non vi era una piazza, ma due: quella di Vittorio Veneto, che comprendeva commercianti, proprietari di attività e la politica istituzionale, e quella di piazza Castello, chiamata sui social con appena un giorno di anticipo ed estremamente più variegata. In quest’ultima si trovavano lavoratori dipendenti, lavoratori a nero, disoccupati, estremismo politico multicolore, ultras e gruppi di giovani senza bandiera dei quartieri periferici, spesso immigrati di seconda o terza generazione. Nel concreto i dannati della città, i perennemente invisibili allo Stato e al discorso pubblico.
Altra grande differenza tra le due piazze, se nella prima i discorsi erano un generico “fateci lavorare” (il discorso del “chiudiamo tutto ma pagateci”, probabilmente l’unico discorso di buon senso in questo momento, ha quando va bene posizioni marginali), nella seconda piazza si capisce da subito che non c’è proprio la volontà di dire nulla. Del resto, chi anche ci ha provato in passato si è ormai disilluso e sa che non verrà ascoltato, mentre per altri non è mai stata un’opzione. Nessuno striscione, nessun cartello, nessuna bandiera. Niente da comunicare se non la propria rabbia. La manifestazione è chiamata per le 20:30 ma alle 20:00 la piazza è già piena, alle 20:15 iniziano i primi scontri. Inizialmente solo piccoli gruppi, poi ne arrivano altri, sia per i manifestanti che per la polizia, per le 20:30 inizia la guerriglia.

Da qui in poi la serata si trasforma velocemente in una rivolta senza simboli, con piccoli gruppi che si muovono in modo indipendente, prendendo come obbiettivo principale i negozi del lusso di via Roma. Lo stupore di media e pubblico per questo tipo di violenze è dovuto principalmente ad un’interpretazione del fenomeno priva dei giusti strumenti: ci si stupisce innanzitutto che tra gli arrestati non risultino commercianti, decidendo quindi di bollare i violenti con il sempreverde termine di infiltrati. Gli errori in questa definizione sono due: innanzitutto si sta implicitamente affermando che le proteste debbano essere a compartimenti stagni, puoi insomma partecipare ad una protesta dei commercianti o dei lavoratori dello spettacolo solo se sei parte della categoria, escludendo a priori quel principio che una volta si chiamava solidarietà di classe, ma che oggi sarebbe più calzante definire rabbia collettiva. Il secondo errore sta nel concetto stesso di infiltrato, un termine utilizzato ormai per definire chiunque attui modalità di lotta violenta o comunque non venga riconosciuto come “manifestante docg”. Ma se la maggioranza di una piazza agisce in un certo modo, possiamo ancora parlare di infiltrati?

Il problema sta proprio qui, nel livello di riconoscimento che diamo a questi fenomeni (riconoscere che non significa per forza approvare, ma semplicemente rendersi conto con che cosa si ha a che fare). Potrà stupire qualcuno, ma essere un “professionista della violenza” o un “facinoroso”, termine che andava di moda una decina di anni fa, non è un lavoro. Nonostante il luogo comune delle destre sui “violenti figli di papà dei centri sociali”, la maggior parte di chi fa queste azioni appartiene a quella classe di lavoratori invisibili, sempre precari, sempre in nero, spesso disoccupati. Gente che lavora da quando ha sedici anni ma che per lo stato non ha mai lavorato, gente che va avanti come può vivendo alla giornata, recettori del reddito di cittadinanza tanto bistrattato per non essere riuscito a trovare un lavoro che non c’è per queste persone, ma a cui dobbiamo rendere grazie se molte più famiglie non si sono dovute rivolgere alla Caritas per mangiare in questi mesi. Per queste persone non esiste recovery fund, perché per lo Stato sono inesistenti. Solo Virginia Raggi, all’epoca del primo lockdown, provò a lanciare un messaggio di vicinanza verso tutti i lavoratori in nero, venendo subissata di critiche da ogni parte. Che l’Italia sia un paese in cui una enorme fetta di persone lavora in nero è proprio il segreto di Pulcinella, tutti lo sanno ma guai a dirlo.

Vedendo le cose in quest’ottica, lo stupore per la razzia avvenuta nei negozi del lusso risulta abbastanza ipocrita. Il negozio di Gucci sfondato e derubato, divenuto un po’ il simbolo di questo lunedì sera, vende capi di abbigliamento e accessori con un prezzo medio di mille euro al pezzo. Un ragazzo della periferia torinese, dove a volte si vive in quattro in un monolocale con uno stipendio mensile da 800 euro, non ha bisogno di particolari analisi socio-politiche per vedere in un simile negozio un valido obbiettivo. La Stampa intervisterà successivamente la proprietaria del negozio San Carlo dal 1973, negozio simbolo del salotto torinese assediato durante la serata, che si affretterà a dire la sua su come i rivoltosi non fossero gente davvero affamata, ma violenti senza causa, ponendo una differenza di valore tra una protesta a suo dire nobile e questa “orda”. Soprassedendo sulla visione dickensiana della marginalità che emerge dalle parole della signora, con gli immaginari poveri vestiti di stracci, miserabili dal cuore d’oro che rubano solo un tozzo di pane per dar da mangiare alla propria famiglia, contrapposti a questi finti poveri, giovani delinquenti in tuta acetata che dan fuoco ai cassonetti e rubano vestiti firmati, dall’intervista si può evincere tutta la violenza simbolica che si abbatte ogni giorno sui dimenticati delle metropoli. La violenza simbolica che sta nella contrapposizione tra le scintillanti vie del centro della città vetrina e la marginalità senza uscita delle periferie, dove gli unici interventi dello Stato, quando non si concretizzano solo nel massiccio uso della repressione poliziesca, si traducono nella gentrificazione selvaggia che spinge i poveri sempre più verso i confini della città, lontano dagli occhi e dal cuore. E allora la rivolta fine a sé stessa diventa un’occasione di restituire alle vie del centro, alle scintillanti vetrine del lusso, un po’ del terrore quotidiano delle periferie. La stessa proprietaria del negozio durante l’intervista riporterà diversi commenti fatti dai passanti nei giorni successivi alla protesta, stupendosi di sentirne molti esprimere comprensione se non apprezzamento per l’assalto alle vetrine del lusso, segno che forse il sentire comune è un po’ diverso dal suo.

L’altra feroce ipocrisia arriva dagli ambienti della pseudo-sinistra, ormai anni luce distante dalle periferie e sempre più espressione politica di Confindustria. Sicuramente vi erano gruppetti di questo tipo alla ricerca di una loro visibilità, ma affermare che la piazza di lunedì fosse guidata da neo-fascisti e ultrà non è solo sbagliato, è proprio una stupidaggine: seppur gruppi politici vari di schieramenti anche opposti fossero presenti, il cuore della rivolta erano giovani senza bandiera delle periferie, molti minorenni, molti figli di immigrati. Se il presente è precario e il futuro è il baratro, del passato e della memoria posso anche farne a meno. Le categorie stesse di fascista e antifascista non bastano in questo caso. Definire “fascista” ogni movimento violento proveniente dalle periferie o che non approviamo non basta a capire la complessità del fenomeno ed è appunto un po’ ipocrita, così come lo è definire “metodo mafioso” il risentimento di questi movimenti verso i giornalisti, da sempre più interessati a guadagnare un click in più sul proprio articolo sbattendo i mostri in prima pagina che a cercare di capire.

L’ultimo punto che ha creato generale stupore è la presenza cosi numerosa, in alcuni casi maggioritaria, di minorenni all’interno degli scontri. La generazione raccontata dai media come “addormentata dai social e dalle nuove tecnologie” si dimostra decisamente più sveglia e notevolmente meno virtuale di quello che pensassimo. Una generazione, quella delle periferie, nata e cresciuta nella crisi non solo economica, ma anche culturale, politica, valoriale e perennemente raccontata da altri, dagli esterni, priva di una auto rappresentazione collettiva. Se i trentenni di oggi sono la generazione a cui è stato detto che i loro sogni si sarebbero realizzati, ma a cui la realtà ha dimostrato che non avrebbero realizzato nulla, questi ragazzi non hanno avuto mai nemmeno il sogno: una generazione per cui un lavoro fisso (magari pure un lavoro che ti piace), una pensione, una casa di proprietà o un mondo migliore sono tutti obbiettivi egualmente irraggiungibili. Addestrati dalla vita a svoltare piuttosto che a sognare, cercando febbrilmente il colpo di genio o di culo che li porterà via da questo presente senza uscita. E se la tanto attesa svolta viene sotto forma di una vetrina spaccata e di un paio di orribili pantaloni gialli da 1100 euro va bene lo stesso.
Per comprendere ciò che sta accadendo nell’Italia di oggi non bastano più le vecchie categorie, bisogna pensarne di nuove. I movimenti di Torino ricordano a molti i Forconi di qualche anno fa, ma visti da vicino sembrano più simili ai Gilets Jaunes, dove un pretesto come le proteste dei commercianti (per i Gilet Gialli fu l’aumento del prezzo della benzina) diventa la miccia per l’espressione di un malessere più ampio e generalizzato. Anche le razzie dei giovani di periferia ricordano le rivolte delle banlieue più che qualsiasi altro fenomeno giovanile. È un fenomeno che ha origine dallo sgretolarsi del proletariato, divisosi da una parte in una media borghesia più teorica che pratica (i piccoli commercianti, proprietari di bar, le finte partite IVA) e dall’altra in sottoproletariato periferico. Ciò che sta accadendo oggi è un progressivo avvicinamento tra le condizioni di queste due classi a causa dell’impoverimento del falso ceto medio, sempre più vicino, se non culturalmente almeno economicamente, a quello basso, che se già era sul fondo, non potendo scavare, inizia a spingere verso l’alto sapendo di non avere più nulla da perdere. Una decadenza non causata dalla pandemia, ma accelerata e aggravata da quest’ultima.
Piuttosto che stupirci per questo genere di fenomeni, dovremmo stupirci che essi non siano avvenuti prima.

Lorenzo Zaccagnini