Siccità, Paolo Virzì (2022). Una recensione

Paolo Virzì, regista sociologico del pubblico borghese e di sinistra, ha costruito una carriera sulla critica al capitalismo in salsa italiana: le ideologie (Ferie d’agosto, 1996), il mondo del lavoro (Tutta la vita davanti, 2008), le stratificazioni sociali (Il capitale umano, 2014), gli “ultimi” (La pazza gioia, 2016), ecc… Tra alti e bassi, ha ottenuto 7 David di Donatello, un Leone d’argento e 9 Nastri d’argento. Nel 2022, dopo la pandemia e nell’estate più calda d’Europa dal 1979, si presenta con Siccità: il tema è quindi il cambiamento climatico.

Il film, ambientato in una Roma apocalittica dove la siccità ha travolto l’Italia, ha l’aspirazione di essere il Don’t look up italiano e si rifà deliberatamente al lógos anti-capitalista à la Bong Joon-ho. Uno dei personaggi principali del film è una copia del dott. Randall Mindy interpretato da Di Caprio, mentre proprio nei primi minuti troviamo una citazione diretta al regista sudcoreano con la comparsa di un turista coreano omonimo. Insomma, il film mira in alto. Se dal titolo capiamo subito che parliamo del surriscaldamento globale, il riferimento a Don’t look up, che passa anche per il tentativo di “critica” ai media televisi ed alle loro ipocrisie, conferma la volontà di Virzì di criticare il cambiamento climatico attraverso il tòpos apocalittico. Il riferimento a Bong Joon-oh, regista di Snowpiercer e Parasite, è una confessione vocativa di inserire la narrazione in una cornice di lotta di classe. Con tutte queste premesse, ci si aspetterebbe una critica anti-capitalista al cambiamento climatico narrata attraverso la lotta di classe in uno scenario apocalittico. Il risultato è l’opposto.

Sebbene siano rappresentate persone di diversa estrazione sociale, la lotta di classe è solo negli scontri tra manifestanti e polizia che fanno da sfondo al vero lógos del film: l’amore (etero cis-patriarcale, in aggiunta) all’italiana. È infatti il vero traino della sceneggiatura. Tutti i personaggi, nel bene e nel male, emergono in quanto personaggi per il rapporto di amore o passione realizzato, mancato o desiderato con gli altri. Persino il giovane borghese rivoltoso che decide di dedicarsi alla lotta, si fa personaggio, cioè esiste attraverso la relazione con gli altri personaggi, attraverso l’amore (l’amico che lo ammira o i genitori che non lo sanno amare). Di lotta non ve n’è. Però vi è tanta “classe”.

Virzì tenta di rappresentare vizi e virtù di ogni classe sociale nel 2022: il borghese intellettuale e buonista che vive della sua fama sui social ma è in crisi con sé stesso e la sua famiglia, il borgataro ignorante e furbo che non riesce a mantenere un lavoro legalmente perché cade sempre nel crimine, il professore esperto e serioso che si vende al sistema appena viene invitato nel mondo dell’alta borghesia, ecc… Il problema è che queste rappresentazioni sono proposte come dei cliché da meme, nient’altro. Non vi è profondità, nulla è tremendo nelle classi di Virzì: alla fine, si ha l’impressione che ogni personaggio sia proletario, medio o alto borghese, solo contingentemente. Sembra quasi che tutti i personaggi pensino, sentano e vivano lo stesso lógos: l’amore. Come se quest’ultimo non fosse essenzialmente diverso a seconda della classe. I personaggi hanno tutti la stessa maschera, ma con colori e costumi diversi. La classe è diventata un accessorio per Virzì, una contingenza appunto.

Questa cancellazione di differenze essenziali tra le classi raccontate da Virzì non permette al film di raggiungere ciò a cui aspira: il tragico. In Parasite, ad esempio, è proprio l’irriconciliabilità essenziale delle due classi in lotta a costruire tragedia. In Siccità, le classi non sono l’essenza dell’opera e non sono essenza nell’opera, perciò non vi è tragedia. Senza tragedia non vi è pathos, e senza questo si estingue l’urgenza del messaggio. A proposito, il messaggio del cambiamento climatico non si presenta sullo schermo. Letteralmente e non. A parte l’assenza di discorsi espliciti sul cambiamento climatico, nessuno dei personaggi parla mai di problemi sistemici o strutturali, oppure delle ragioni radicali della siccità. Il cambiamento climatico non è inseribile né intuibile nel mondo creato da Virzì. Inoltre, quando a fine film “torna la pioggia”, questa viene accolta come segno che la siccità è finita e così tutto si risolverà. Il problema è che con il cambiamento climatico non si stima l’assenza eterna delle piogge, ma la loro irregolarità. Cioè, ci sarà più siccità, alternata da precipitazioni più violente e quindi meno favorevoli allo sviluppo. Nel film di Virzì la pioggia torna a risolvere tutto. Come se quindi il vero tòpos del film fosse solo la siccità stessa in quanto tale e non in quanto tropo del cambiamento climatico.

La volontà di ispirarsi alle critiche anti-capitaliste o alle denunce post-apocalittiche del cinema internazionale si contraddice nell’incapacità di articolarle in salsa italiana. Virzì prova a fare Bong Joon-oh provando a realizzare Don’t look up in versione tricolore. Il risultato è un tentativo di riconciliazione nazional-popolare che non convince. Virzì cerca di essere amico del pubblico medio da lui immaginato, rassicurandolo con la superficialità dei personaggi e seducendolo col solito lógos italiano: l’amore. Non resiste la voglia di arrivare a tutti ma vuole farlo seguendo i suoi modelli cinematografici nostrani. Invece di avere un dramma d’autore o una dark comedy apocalittica, abbiamo un dramma/commedia commerciale senza pretese e tristemente auto-referenziale.

Virzì ha iniziato la sua carriera nel post-tangentopoli, quando la sinistra italiana, abbandonata la via del comunismo e della lotta di classe, ha deciso di rimanere diversa dalla destra accettando di difendere lo stesso sistema. Con l’ascesa di Berlusconi, questa sinistra si è innervosita, arroccata nella torre d’avorio della “superiorità morale” ereditata dal PCI e dell’assuefazione al potere ereditata dalla Democrazia Cristiana. Facendo così, i borghesi della sinistra post-PCI, oggi rappresentati dal PD- sostenuto da Virzì stesso- non hanno voluto interessarsi della classe lavoratrice ed hanno voluto differenziarsi dai borghesi di destra. Quindi la schizofrenia di essere borghese, ma negare a sé stesso l’essenzialità e la fatalità della propria appartenenza di classe. Il punto della prospettiva di classe è invece proprio questo: non puoi mai uscire dalla tua prospettiva di classe. Per la sinistra borghese, invece, essere borghese è una contingenza: il borghese di sinistra pensa di poter andare “oltre” la propria prospettiva di classe, pensa che la politica sia poter guardare a tutte le classi.

Proprio come il PD ha provato ad essere partito nazionale, Virzì prova a fare un film nazionale. Proprio come il primo ha fallito, venendo rigettato dalla classe lavoratrice (che nel 2018 ha scelto il Movimento 5 stelle) e superato dalla destra borghese (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia nel 2022), il secondo non piacerà né alla classe lavoratrice né a gran parte della borghesia italiana. La schizofrenia del PD e di Virzì racconta di un progetto culturale che ha fallito e che si chiude nel 2022, con queste elezioni e con questo film. Questa è un’occasione per il cinema e per la democrazia: tornare al tragico ed alla lotta di classe.

Federico Giovannini