Valentina Pedicini (1978 – 2020) – In memoriam, 1

Valentina Pedicini (1978 – 2020) – In memoriam, 1: “Dove cadono le ombre”,  film, 2017

Regia: Valentina Pedicini; sceneggiatura: Francesca Manieri e Valentina Pedicini; fotografia: Vladan Radovic; montaggio: Giogiò Franchini; con: Federica Rosellini, Elena Cotta, Josafat Vagni, Lucrezia Guidone, Alberto Cracco; colore; 103′; prod.: Fandango-Rai Cinema; Italia, 2017; in visione streaming previa registrazione su RaiPlay.

Scusatemi questa precisazione da nessuno richiesta: a Valentina Pedicini io avrei dedicato una o più recensioni e tutto il mio entusiasmo anche se non fosse morta. E anche se non fosse morta così giovane. Questo quindi non è solo un necrologio. E’ stata, come si suol dire, una brillante meteora nel cielo del cinema europeo ma io ero sicuro che sarebbe stata una sua grande protagonista; una densa e brillante stella con una lunga e visibile storia. Da quando vidi il trailer di “Faith”, il suo ultimo lavoro, del 2019, ebbi una chiara sensazione: era già grande e sarebbe diventata ancora più grande. (Poi, ahinoi, mesi dopo è arrivata la Morte).

Questa involontaria e audace sensazione di poter percepire la nascita di un/a grande artista mi è arrivata più volte in questi anni, istintiva all’inizio e gratificante, poi,  nel corso del tempo: azzeccavo. Ricordo con quale smisurato entusiamo recensii alla sua uscita “Back to Black”, l’album di Amy Winehouse del 2006; commentai che sarebbe diventata  grande tra i grandi per sempre (“se non moriva presto”, ricordo che aggiunsi imprudente, così pressappoco scrissi  😢). Così fu, anche se la Morte diede qualche anno di tregua: nel 2011 finì tutto.

Ero entusiasta, e così lo scrissi, di “J’ai tué ma mère” il film scritto, diretto ed interpretato da un giovanissimo Xavier Dolan nel 2009. Così è stato: oggi, vivo e creativo, è già nella Storia del Cinema.

Altrettanto mi successe con l’esordiente Zerocalcare nel 2011, il suo fumetto “La profezia dell’armadillo” prometteva molto, moltissimo. Lo scrissi… oggi produce senza sosta e vende libri a milioni. E così mi successe con altri ancora…

Valentina Pedicini ci ha lasciato una filmografia corta, esclusi i suoi lavori come studente alla scuola Zelig di Bolzano. Del 2013 è il suo documentario “Dal profondo” sui minatori ed una minatrice del carbone del Sulcis. Del 2016 il corto “Era ieri”, una storia di sofferto amore adolescente in 13′; del 2017 il lungometraggio “Dove cadono le ombre”; del 2019 il suo ultimo lavoro, il documentario “Faith”. Poi, ahinoi, la Morte, niente.

Fu il trailer di “Faith”, un piccolo capolavoro in se stesso, a farmi scoprire Valentina Pedicini. Mi incuriosì molto per il soggetto, per la perizia tecnica, per la sua specificità e originalità. Poi ho visto “Faith”  completo, poi “Dove cadono le ombre”, poi “Dal profondo”, poi il trailer di “Era ieri”. Non sono ancora riuscito a vedere “Era ieri” completo. Non è molto disponibile. Bisogna inseguirlo per i festival on-line che lo programmano. Lo farò.

Una delle cose più specifiche che mi ha colpito del cinema di Pedicini è il senso di comunità che trasmette: ogni pellicola e l’intero insieme sono il frutto di una rete coesiva e silenziosa che crea appartenenza e fedeltà, che collega e salda in un unicum inscindibile identità personali, amicizie, interessi, inquietudini, progetti umani, vicende private o pubbliche, e che sfocia in “una storia solidale e comune”. Regista, attori e attrici, produttrice, collaboratori, idee, atteggiamenti, sembrano uniti da una fratellanza, o una sorellanza, che permea e addolcisce, lungo lo spazio ed il tempo, i processi amministrativi, l’organizzazione operativa, l’ambiente e il percorso di elaborazione di ogni film. Una forma, innocente e generosa, amichevole, si potrebbe dire, indie di fare cinema.

“Dove cadono le ombre” è un film duro, difficile ma allo stesso tempo bellissimo e coinvolgente, di una drammaticità contenuta ma tesa, senza quasi respiro, fatta di misteri che ancora non conosciamo, di sguardi e gesti che intuiamo vogliano dire molto ma ancora non siamo in grado di capire, esplicitata con un’estetica ombrosa e fosca, quanto mai pertinente e giusta. Un materiale scivoloso e insidioso nelle candide mani dell’innocente spettatore.

Pedicini prende spunto da alcune testimonianze degli atroci esperimenti eugenetici al limite del genocidio eseguiti dallo Stato svizzero su bambine e bambini di etnia Jenisch dal 1926 al 1974 ma, senza incidere sulla problematica giuridica, morale e politica dei fatti, che sorvola, si concentra sulla loro dimensione intima; sulla relazione tra due donne a suo tempo, quattordici anni prima, opposte protagoniste delle vergognose vicende e, al tempo del film, obbligate dal caso a convivere nella residenza per anziani che a suo tempo fu il laboratorio dove il tentativo di annientamento dell’etnia Jenisch, tramite i loro bambini e bambine, fu compiuto.

Ma, senza entrare nei dettagli, che non svelerò, della storia, cos’è questa storia? Una storia di odio o di amore? La storia di una vendetta o la storia di una riconciliazione? Una storia sul disordine del mondo o una storia per ricostituire l’ordine del mondo? Con grande perizia della regia lo spettatore viene immerso in questo mare agitato di sottili ma pericolose turbolenze, ma viene anche messo in condizione di avvalersi di se stesso per uscirne.

Da questo punto di vista “Dove cadono le ombre” è, nel senso stretto e anche marxiano o darwiniano della parola, un film dialettico. Non interessano i valori assoluti, i punti fermi, i principi, le apparenze, ma la loro dinamica, i continui movimenti nella struttura profonda, le transizioni,  la continua trasformazione di una situazione in un’altra. Il  gioco all’infinito dell’incontro conflittuale di una tesi con la sua antitesi e l’emergere di una sintesi che a sua volta diventa tesi…

A questo punto è interessante ribadire il senso della sorellanza, meglio dire, della sororità, del senso di comunità, del quale si è parlato prima. Pedicini sembra muoversi nell’ambiente del femminismo, anzi, del femminismo lesbico, ed in concreto di quello, meno normalizzato, che conosciamo come queer; infatti, quasi contemporaneamente allo sviluppo del film Francesca Manieri (l’esperta co-sceneggiatrice) e l’attrice, e anche regista, Federica Rosellini (straordinaria protagonista) lavorano nella, immagino complessissima, trasposizione per il teatro di ‘Testo tossico’ del filosofo e attivista “queer” Paul (già Beatriz) Preciado, il trattato più forte ed “aggressivo”, quasi insopportabile (a suo tempo leggerlo mi costò fatica emotiva ed intellettuale) che esprimeva (straordinaria capacità di analisi, conclusioni discutibili) la allora ultima frontiera delle teorie e delle pratiche di genere.

Sicuramente (anzi, si vede) l’ambiente culturale, la comunità nella quale si muove Pedicini ha influito su questa sua visione dialettica, non binaria, meno lineare, che si muove in spazi e tempi cangianti, transizionali, non regolati, ambigui ma profondamente reali dei suoi film e della realtà.

Bagliori del film: una donna perfetta, maestrina degli altri e di se stessa, forte e debole, dura e tenera, decisa ed irrisolta, esemplare; un’anziana tenera e dura, spiazzante e sicura, morale ed immorale,”Sei ancora arrabbiata con me? Sei contenta di vedermi? Io sì”; uomini “a posto” impegolati in storie primarie ed impossibili di sesso, erotismo ed amore; una ragazza cinica e realistica, brava; false verità, generose menzogne, passato e presente, memoria e oblio avvinghiati in un abbraccio ambiguo e inquietante, demenza, pazzia e salute mentale; rischiosa ma magistrale direzione attorale; distacco, foschia, sorpresa, giochi da tavolo, scene notturne, teatralità;  pianto, furia, isteria, rabbia; “Questa sono io, questa è la mia stirpe, quella delle pazze, delle puttane, dei Jenisch…”, abbracci, sorrisi…

Paco Domene