Venerdì, ma per scrivere di Giovedì

Un viaggio, un come, al Giacosa

Il racconto di un’esperienza, quella dello spettacolo “Ciascuno è un libro. Ivrea racconta”, andato in scena al Teatro Giacosa sabato 12 novembre. E che, per chi prova a raccontarla,  è stata una scoperta, un’avventura. Inaspettata, sorprendente. Incominciata prima di quella sera e, forse, non ancora finita.

La corsa delle 4 e 16 del mattino la prendo se ne ho voglia altrimenti mi giro dall’altra parte e ci si vede alle 7, solo che a quel punto non c’è più tempo per niente perché inizia la giornata. Però oggi il dilemma proprio non si pone: ho la testa che macina, sforna pensieri come da un po’ non accadeva e sarebbe un peccato lasciarli in balìa della polvere del tempo.
Tutto è avvenuto troppo rapidamente e mi sento come Roy Batty nel finale di Blade Runner: “ho visto cose che voi umani...”, ho ascoltato due madri narrare la perdita del loro figlio sentendo – perché non è questione di comprensione – che esistono dolori così lancinanti da non aver le parole per dirlo (chi è vedovo o orfano almeno ha la consolazione di un sostantivo in cui identificarsi); ho visto non uno ma due Ulisse, la loro Itaca è così lontana da non immaginare cos’abbiano vissuto, per rimediare costringiamo i nostri ragazzi a leggere l’Odissea, ma in spiaggia a Capalbio che è lontana da incontri scomodi; ho respirato la bellezza del Vero infatti ho visto Marco Polo, così pacato e a modo, incazzarsi – ma con educazione – per il puntiglio della R. (di Regista ma anche di Rompicoglioni). R. è una Tipa, il titolo dello spettacolo lascia intendere che qui tutti lo siamo, ma gli altri hanno bisogno di legger un foglio A4 per fartelo scoprire, a lei bastano la voce e l’energia che ha dentro. Quella forza lei la impiega per un solo scopo: trasformare la sua impressione in gesto, tono, dettaglio; ha una sensibilità pazzesca, il problema che è tutto ‘sto ben di Dio straripa e lei lo deve piazzare da qualche parte, siccome è tosta di carattere non può che cercare di inculcarlo nell’altro, così lo interrompe sempre, specie se è bravo; io bravo non sono quindi quando leggo mi lascia fare e mi sta simpatica. E poi ha, anzi “È”, passione, passione pura, un dado da brodo di dedizione alla causa che si celebra in questo luogo che, sempre da oggi, ha acquisito un nonsoché di paganamente Sacro: il gesto che si fa Segno e diventa Arte, ormai la venero anch’io, turista di passaggio in un mondo che da oggi guarderò con un altro occhio.
La storia dell’occhio l’ho scoperta tornato a casa, togliendomi la giacca e salutando Mo che guarda l’ennesima SerieTV impostata, scritta e recitata con lo scopo di tenerla incollata allo schermo. La scena è la solita ma questa volta, e non era mai successo, realizzo tutto il lavoro che c’è dietro la narrazione facile, scorrevole, premasticata, di quelle immagini. E dal nulla si materializzano lo stuolo di personaggi senza volto che riempiono i titoli di coda al termine anche della più noiosa delle trasmissioni, senza di loro quel lavoro, e anche questo, non sarebbe nato: amanuensi contemporanei capaci di svolgere con passione lavori senza luci della ribalta, e senza applausi.
Già gli applausi… chi li riceve e chi no… Siore e Siori, è il momento di Colponi, il mio fedele compagno di merende, è lui a ricordarmi che Mo, che mi ha accolto senza la pompa a cui così facilmente abitua il palcoscenico, è come loro, gli amanuensi. Senza Mo io non sarei un sacco di cose; eppure, nella pagella – perché così me la vivo – che Marco Polo ha scritto per me non c’è neanche una sillaba per Mo mentre Polo ha dedicato più di una riga alla Tumma, ma per accennare al mio utilizzo adolescenziale dei libri come medicina alle pene d’amore. “...perché Mo è dappertutto”, potrei risolverla così ma Mo è una donna intelligente e sa che sarebbe solo un trucco per mettermi in pace con Colponi. Però è vero. E così le metto una foto.

La storia di ieri, giovedì, è iniziata ben prima delle prove

Erano le 13.04 quando finalmente sono riuscito a portare a spasso la bestia che è in me.
Io DEVO muovermi, è la mia modalità, l’ho detto pure a Marco Polo quindi dev’esser proprio così. Ciò che non ho raccontato a Marco Polo, ma lui l’ha capito lo stesso perché è Marco Polo mica per caso, è che quando vado in giro spurgo quel che ho dentro come una lumaca. Spurgare non è particolarmente piacevole ma è l’unico modo che conosco per capire cos’ho dentro, prima mica lo so.
Il problema è che ieri producevo solo cattivi pensieri e se pensavo all’altro, non importa chi, era per divagare su ciò che non mi piaceva. Non è bello scoprirsi malmostosi, ma credo che quel sentimento fosse in qualche modo legato all’ansia di ciò che stava per accadere, al film di ieri sera, insomma, perché alla fine della Prova, dopo aver ascoltato le storie degli altri ventuno, avevo una voglia fortissima di abbracciarli tutti, e per la loro bellezza – intesa come incarnazione della Realtà, per quello che sono, non per un fatto estetico. Non so capire cosa ci fosse né nell’ostilità preventiva, né nel buonismo postumo, so che tra quei due sentimenti c’è una relazione, non so andare oltre, resta solo la convinzione che in questa faccenda manchi un equilibrio stabile.
È per questo che le pulsazioni sono andate su quando sono entrato in Teatro, quello con la T maiuscola: è la prima volta che sto sulla scena, in passato ero sempre finito tra gli stucchi dorati che dominano l’altra metà di questo tempio pagano: in platea imperano riverenze, salamelecchi, variazioni del gioco di chi c’è e chi non c’è. Adesso io, noi, abbiamo cambiato fronte: da questa parte del tempio ci si mette in gioco e questi sono i miei compagni di squadra. So che voglio bene a quei volti per il loro semplice esser qui, anche se non li conosco.

Sabato mattina, pensando a Venerdì

Il 4 è 16 oggi è passato ma non l’ho neanche sentito. Troppo stanco, troppe novità.
L’entusiasmo del primo giorno non c’è più, capisco che quella che per me era sorpresa, per Marco Polo e R. è lavoro, non solo passione. Ho bisogno di ripensare a ieri, alla seconda prova: intanto ho capito che il mio turno di lettura pagella è all’inizio, è una fortuna perché così non accumulo tensione e dopo mi godo tutto il resto da spettatore.
Leggere quel foglio ogni volta è un viaggio: passo tra parti che mi piacciono e altre no, però il finale è proprio bello e me lo vivo come un abito cucito su misura. Marco Polo è stato generoso con me, ma credo con tutti, e ieri sera mi ha fatto montare la voglia di metter in pratica ciò che ha scritto di me: raccogliere, mettere insieme e poi vedere l’effetto che fa; mi sorprende sempre il risultato, specie se calo ciò che ho visto in un contesto diverso da quello in cui l’ho raccolto, e la tentazione di trovarne un senso è il bello del gioco: piccole scoperte, mai la scoperta dell’America eh, sembra di giocare al piccolo esploratore, anche se sono sempre in odore di impostura: racconto o recito la parte? essere o apparire? la differenza tra i due verbi dipende solo dalla onestà di chi gioca: gli attori sono questo: incarnano ciò che rappresentano o se lo appiccicano addosso?
Già, gli attori. Fin da giovedì ci fanno entrare dall’ingresso Artisti, forse per farci capire l’aria che tira… Sia come sia, mi sono messo a fare foto, cercando di non pensare che – come per la scrittura – tra i presenti qui c’è chi vive di ciò che per me è solo un gioco con regole che non conosco: Davide, che fa foto tecnicamente così perfette che non saprei neanche imitarle. D. quando è all’opera si accuccia un po’ e sembra che si stia preparando a incassare l’inerzia dell’immagine che ha deciso di far entrare nella sua scatoletta nera, come se la perdita della terza dimensione, il passaggio di stato da realtà a sua rappresentazione, producesse energia.
Se Giovedi era il giorno delle storie, ieri – sarà per la scusa delle foto – è stato il giorno dei volti; che quando colleghi alle storie magicamente diventano belli, così belli che se ne fanno un baffo dell’apparenza. E così faccio parlare loro con tante scuse per gli assenti NULLA DI PERSONALE

Sabato. Dopo l’ultima prova

È successo due volte, e sono sempre delle donne a riuscirci: mi è venuto il groppo. Non so perché. Ricordo il quando: loro parlano di sofferenza che sfuma in qualcosa che, metabolizzato, diventa altro. Glissano sul come ci siano riuscite, giusto fanno intuire che dietro ai nuvoloni cupi di un destino ingiusto può far capolino un mezzo sorriso, disincantato, ma che da speranza, voglia di continuare, di dire commentando una porta socchiusa “e poi c’è Bach, e Bach è Dio...” e la chitarra attacca la sua suite nr.1 in Sol Maggiore, che sarebbe per violoncello ma che anche così funziona, e io mi scopro incontinente, solo che non esiste un pannolone per i sentimenti e la lacrima avrebbe una gran voglia di trasformarsi in cateratta, non posso – cosa direbbero gli altri? – ma almeno penso a mia mamma, e al problema che ho con lei: non sono mai riuscito a piangere per la sua morte.
È la stessa ragione per la quale qui ammiro Laura Shop e Maresa: loro riescono a parlarne. Io no; eppure, sento che ne ho un gran bisogno. Il punto è che ho avuto l’Intuizione, elevata seduta stante a certezza: questa Avventura (perché è tale visto che non so come andrà a finire) è legata a mia mamma, ai valori che mi ha passato, alla curiosità… io ho accettato l’invito di Marco Polo “perché me l’ha detto la mia mamma…” e immaginatevi di sentirlo dire da un bimbo di 5 anni che ti guarda con il naso all’insù. È vero: qui se ne può parlare… chi è qui è perché ha aperto sé stesso. Accade di rado e infatti mai avrei pensato di vedere come al terzo incontro 22 perfetti sconosciuti1 possano fare squadra. Si, Squadra; e con un comun denominatore: siamo tutti piccioni viaggiatori: per noi Ivrea è un posto speciale e infatti ci stiamo, o ci torniamo, volentieri; amiamo questa città, divisa fin dalla 1 – che in realtà se ci metti Marco Polo, R. e Francesca, i musici, Bruno (che infatti è sempre nell’ombra) e qualcuno che non ricordo ma che se mancasse si noterebbe, diventeranno una trentina topografia – riva destra, riva sinistra – per non parlar del resto… ma unita, riappacificata mi vien da dire, dalla sua bellezza.
R. a inizio prova ci ha fatto un discorso per prepararci a quando ci sarà il pubblico, sembrava Bearzot ai mondiali dell’82: energia pura, lei la parola squadra non l’ha mai nominata ma secondo me sentiva che l’aveva già in tasca: adesso partirei in quarta per difendere ciascuno dei miei compagni, 48 ore fa non sarebbe stato così: nel migliore dei casi – e non è scontato, anzi – l’avrei fatto per educazione, non certo per istinto. Questo gioco è servito a ricordarmi che l’Altro è ciò che vedo ma non solo: è il suo passato, un Mistero che svelandosi acquista fascino anziché smarrirlo e induce rispetto.
I miei 21 compagni di viaggio sono altrettante porte che si sono schiuse, che hanno accettato di non temere l’Altro, per scoprire che non è un nemico; l’entusiasmo con cui ci siamo fatti prendere da questo gioco è proporzionale allo stupore per questa scoperta. Sia come sia R. e Polo ci hanno fatto provare il saluto finale non so quante volte, non si capisce niente, maturo solo la certezza che in Germania uno spettacolo così non riuscirebbero neanche a immaginarlo; so anche che andrà bene perché è vero che siamo sgarrupati ma abbiamo cuore, e passione. Continuo a domandarmi come si vestiranno gli altri, R. e Marco Polo ci hanno dato carta bianca, ma nessuno tra noi ne parla così mi viene da stare al gioco e non chiedere. Intanto inizia a montare il gusto per lo sghiribizzo: vestirmi bene.
Per rispetto del luogo, per la serietà con cui abbiamo giocato finora DOPO – domenica mattina Questa mattina mi sono svegliato con una utopia stampata in testa: se fosse possibile riprodurre questo giochino su larga scala le guerre non avrebbero più senso. Sulla chat Silvio ha scritto e così trovo conferma nella convinzione che sia la nudità una delle chiavi di tutto. Se ti mostri per quello che sei, con le tue debolezze incluse nel forfait, nessuno ti attacca. La prova? durante lo spettacolo legger la mia pagella a tutto il Giacosa non era nulla rispetto alla consapevolezza che in quello stesso istante stavo dicendo “io sono così” a mio papà, invitato all’ultimo con la scusa che solo venerdì mi sono convinto del valore di questo Lavoro. In realtà non avevo il coraggio di dirgli che mi ero finalmente messo il cuore in pace con l’idea di vender maioliche perché così avevo detto a Marco Polo quando mi aveva chiesto quale fosse il lavoro dei miei sogni: “questo” gli avevo risposto dopo un’esitazione durata troppo, in quei secondi avevo pensato che a una certa età
occorre accettare il presente: Ragionamento. Ma leggere quelle stesse parole davanti a QUELLA platea è stato un momento di passaggio: Rito. E poi, dopo, in pagella c’è scritto che io sono anche altro. E l’ho detto al Giacosa pieno fino in piccionaia. E al mio papà. Se vi accenno questa storia è per il suo epilogo: quando ho visto papà fuori dal Teatro ci siamo abbracciati. Nessuna parola, solo un gesto.

 LUNEDI MATTINA

Ho preso il 5 e 35, mi sento rintronato come dopo una sbornia, e con il bisogno di ritrovare una qualche forma di equilibrio. Sento che mi sono sbilanciato troppo, ho bruciato troppe tappe: nella foga di scrivere non ho riletto e ora lievita, tardivo, il timore di non essermi spiegato. Meglio
riprendere gli appunti e partire da dove li avevo interrotti: …. da ieri il Teatro mi sembra uno di quei marchingegni che trasformano le cose, tipo un forno a nastro dove vedi che da una parte entra l’impasto di farina e dall’altro esce la pagnotta. Solo che il Teatro, inteso come machina , questa trasformazione la fa con le persone. Meglio andar con calma: fino a mercoledì il Giacosa me lo rappresentavo con la staticità rassicurante con cui si stilizzano le banche: un frontone e sotto il colonnato, massiccio, solido, statico quanto la certezza che Violetta traviata muore sempre in un letto e Carmen no. Non mi rendevo conto che il Teatro è un luogo dove ciò che si rappresenta nasce dal nulla ogni volta, ed è l’iterazione tra persone che si mettono in gioco la linfa vitale che permette questa magìa. Qui dentro tutto è cambiamento: sabato, mentre provavamo i ringraziamenti parlavo con MoriApolide: gli accennavo il confronto tra la solidità della pagella sua o di Wandi rispetto all’inconsistenza della mia: la loro storia è tutta azione; la mia in confronto è un film del cineclub, di quelli che tanto annoiano PaoloIlProiezionista. Un confronto simile è un invito a nozze per Colponi, ma in questo caso lavora per me: il senso di colpa è il lassativo che permette l’evacuazione della mia certezza – tanto convinta quanto celata – che mai scambierei il mio destino con quello di Mori o Wandi; questa convinzione fa il pari con consapevolezza altrettanto nascosta che io non ho nessun merito nell’esser nato “qua” e non “la”: è solo una botta di culo, pardon: un colpo di fortuna. Ed è con questa consapevolezza che ascolto Mori mentre mi spiega – con l’eleganza innata dei suoi modi – che “noi” dovremmo esser contenti di sapere che ci sono “loro” e le loro storie perché così ogni nostro cruccio diventa irrilevante. Quindi i nostri
crucci “lui” li vede? Quindi implicitamente mi sta anche dicendo che lui sa che non siamo felici? La prova è nel nostro stesso esser qui a Teatro per rappresentare le nostre paturnie, questa non è mica una sfilata di bellezza… Infatti sento che il cuore che batte forte e non ne immagino neanche la ragione… Diabolico questo Mori, e chirurgico. Potevo scoprirlo senza la machina ? Certo che si, ma “la fuori” non è mai accaduto e io sono convinto che non sia un caso. Meglio tornare subito nella comodità della scomodità esistenziale: questa è la potenza della macchina che incarna questo stesso edificio: entri dentro in un modo, ne esci in un altro. Ho varcato l’accesso degli Artisti chiedendomi “che ci faccio qua (dentro)?”, preoccupato di come mi sono vestito giusto per tener la testa occupata, e adesso so che ne uscirò con un “che ci faccio là (fuori)?”. Imperfetto
La vita è un’equazione irrisolvibile? forse, ma solo per la limitatezza dei mezzi che ho. E poi là fuori c’è la Realtà, c’è Wandi che pulisce la tomba di Olivetti, ci sono le parole di Alessandro che in quindici righe ha riassunto ciò che io non ho saputo capire in otto pagine Ci siete voi: l’Altro, e il suo Mistero. Ciascuno è un libro. Passato Prossimo Ritorno ai vecchi equilibri, alle vecchie abitudini, e alle solite notizie. Non succede mai nulla in questo noiosissimo pianeta: tra ieri sera e questa mattina la Nato ha valutato se dichiarare guerra alla Russia, se lo fa inizierà ufficialmente la Terza Guerra Mondiale, l’ultima che combatteremo con armi diverse dalle clave (questa non è mia, l’ha detta
Einstein). Ah, e poi è partito il razzo che se mai avrà voglia di tornare indietro, tra qualche anno porterà l’homo sapiens sapiens sulla Luna ma con delle novità rispetto a 50 anni fa: ai tempi di Apollo caricavano solo Maschi Bianchi, adesso su Artemis c’è posto solo per Donne e Neri perché ormai nello spazio esportiamo il politicamente corretto, sul resto ci stiamo lavorando. Si tratta di notizie che quando leggerete queste righe appariranno antiche, perché ormai viviamo in una centrifuga, altro che un pianeta. E io – insicuro cronico – rileggo e correggo e rileggo ancora e chissà quando vi manderò queste righe… Passato remoto E fu così che a furia di rileggere arrivò anche il Signor CheCiFaccioQui, mi mancava…non so da dove sbuchi ma questa mattina è salito anche lui sul 5 e 03 e ora ce l’ho piazzato di fronte. Immobile, muto, odioso: mi guarda fisso e non fa altro, sa che non è necessario perché per il lavoro sporco l’ha lasciato al suo socio, Colponi, che in effetti ci dà dentro: “ma come hai potuto…” mi dice con tono falsamente sorpreso, e giù l’elenco delle banfate: ti sei messo a far foto quando c’era il fotografo professionista; hai recitato la parte di quello che ama l’avventura davanti a gente che è partita lasciandosi alle spalle la vita precedente mentre tu giochi a far la Giovane Marmotta ma ben attento a non perdere la prenotazione del viaggio di ritorno; hai parlato della Momba quando PaoloCheNonSopportaiFilmDelCineclub ti ha sempre dato la bagna, e fumandosi un sigaro; ti sei messo a scrivere quando qui c’è uno stuolo di gente che lavora con le parole: uno scrittore, una regista, un avvocato, anche un professore di latino e greco, e pure severo.
Poi ci sono gli altri, ed è ancora peggio, perchè di loro non so nulla se non che se sono funzionali alla tesi di Gian Luca e all’epilogo delle Città Invisibili: ”Riconoscere, in mezzo all’inferno, chi inferno non è, e farlo durare e dargli spazio”. Cos’è questo? un club più esclusivo del Circolo della Caccia? Che ci faccio qui? Silenzio. Nessuna risposta. Dentro sento solo montare il desiderio di non essere nessuno, a me basta poter assistere a questo spettacolo. Come una mosca che per caso passa da quelle parti. Nessuno…Era il trucco di Ulisse con Polifemo… Si, è così.
Colponi, intanto, mi guarda perplesso e sibila uno scontato “Anche l’Omero ti sei messo a fare…”. E intanto queste stesse righe diventano insopportabili: troppo edulcorate, finte. Sembrano scritte per piacere agli altri, ma con la certezza di non riuscirci e il rimorso di aver perso l’occasione per arrivare a capire qualcosa che non conosco ma con cui convivo. È una difesa: quando finisco nel vicolo cieco di un pensiero scomodo mi distraggo, la mente pensa ad altro e in questo caso mi propone le scarpe fucsia di ElisaLaMugnaia, quelle che calzò la sera dello spettacolo. Come al solito non so il perché la zucca mi giochi simili scherzi, so che l’immagine è servita per riportarmi ad un passo del mio
libro preferito, quando Swann, l’alter ego del mio Autore Preferito (A.P.) confida alla Duchessa di Guermantes che ormai gli resta poco da vivere, ma la Duchessa è di fretta, deve andare ad una soirée e non può ascoltarlo, poi l’imprevisto: la Duchessa ha sbagliato scarpe. Non ha messo quelle rosse, che si abbinano al vestito. E torna in camera a cambiarsele. Malgrado la fretta2. Ho sempre pensato che A.P. abbia scritto quel passo con la rabbia e la malinconia del monologo di Roy Batty/Blade Runner ma non ho mai saputo andare oltre. Forse penso ad A.P. perché moriva giusto 100 anni fa di un male annunciato; o forse quel passo mi torna in mente perché semplicemente contiene tutto, come un cassetto che custodisce la chiave della cassaforte. E dal nulla torna l’immagine di Maresa e Laura Bethaz che leggono nella loro pagella le parole usate da Marco Polo per descrivere 2 Proust ; I Guermantes: non occorre la pagina, è l’ultima quei momenti che non hanno parole per dirlo: “devastante…”, “a me li si è spaccato il cervello…”Per come lavora Marco Polo sono convinto che mentre ascoltava quei racconti abbia
solo trascritto ciò che aveva appena ascoltato. Erano parole di Laura e Maresa dunque? Non più: la machina le ha fatte sue e sono diventate di tutti i presenti al Giacosa la sera del 12 Novembre 2022. Gli altri, quelli della platea, avranno capito il valore di ciò che hanno ascoltato quella sera? Chissà. E poi non è importante. Conterebbe molto di più sapere come stanno Maresa e Laura ora, dieci giorni dopo quella serata.
Le considerazioni di Alessandro su Whatsapp inducono ottimismo: lui grazie a questa esperienza dice di aver preso le distanze dal suo rancore, se mi guardo dentro provo qualcosa di simile: ho detto a mio padre “io sono altro” e lui mi ha abbracciato. E gli altri soci di questo novello Circolo di privilegiati? Penso a loro e mi torna in mente Marco Polo e le parole che ha usato per concludere la storia. Sono sempre le stesse: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, inferno non è, e farlo durare, e dargli spazio Ora le leggo in un modo diverso. Polo/Calvino scriveva di Inferno, l’ha nominato due volte per farmelo notare ma prima non capivo, non volevo capire – la comodità delle poltrone in platea è irresistibile – e saltavo a quel “dargli spazio” che tanto gratifica il mio Ego visto che nel Circolo hanno imbarcato anche me. Ma ora so che esiste l’Inferno grazie ai sensi di chi l’ha raccontato per me. A me. Grazie a Mori so che lui, Laura, Maresa, Wandi e tutti quelli che si sono scontrati con la crudele durezza della vita mi guarderanno con la compassione che proprio Mori mi ha riservato, facendomifinalmente sentire ciò che sono: un pivello che lotta con i suoi fantasmi.
Perché siamo fatti così: se viviamo in Paradiso ci mettiamo a cercare la Mela Proibita, e proprio per venir scacciati dal luogo che sulla carta vorremmo abitare in eterno. Un film del cineclub? No, la Realtà. E voglio bene a chi me l’ha fatto capire, spero tanto che sia servito a quegli occhi, quella bocca, quel cervello quanto è servito al mio cuore. Il cuore… Tutto torna, era lui la causa di quel bisogno di abbracciare gli altri 21 sconosciuti della prima sera, quella di Giovedì scorso. Il resto è alchimia del Teatro, una scienza che tale non è anche se ti fa sentire in cima al mondo quando ti regala l’illusione di vedere in un modo nuovo ciò che ti sta intorno.
Vorrei trovare le parole per dirlo ma non le ho, so solo che si tratta di un processo, un viaggio, un Come. Come la vita.

Uno dei 22