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Esemplare film di Ken Loach sulle nuove dinamiche del lavoro

Ho nel cassetto entrambe le tessere delle rassegne cinematografiche, previste per la corrente stagione ma, causa una montante pigrizia, stavo per rinunciare al film di Ken Loach. Invece, con una sferzata di volontà, sono andato a vederlo proprio qualche giorno prima che l’ultimo Dpcm bloccasse l’accesso ai cinema per le note ragioni di contenimento della pandemia.
Ebbene quest’ultimo film, servito sullo schermo del Politeama e che sarà replicato in futuro anche nel programma del Boaro, è stata l’occasione migliore per “chiudere” in bellezza.

Che Ken Loach sia un regista di genio è fuor di dubbio, ma in questo suo lavoro, seppur apparentemente estremizzato, si delinea tutta la cruda realtà in cui versano oggi i lavoratori, tra perdita di dignità individuale, precariato e sfruttamento su basi ciniche e ricattatorie.
Loach utilizza molto bene la sua esperienza di documentarista cogliendo nel profondo gli aspetti del reale, ambienta perfettamente il quotidiano, individua e connota le psicologie dei personaggi, mette in luce il dramma del lavoro dominato universalmente dalla dittatura del denaro.
Al centro della vicenda una famiglia di Newcastle, il padre Richy, la madre Abby, il figlio adolescente Sebastian, che attraversa le crisi adolescenziali tipiche dell’età e la piccola sorella Lisa Jane appena undicenne. Padre e madre si danno da fare per sbarcare il lunario, lui attraverso piccoli mestieri, lei dedita al difficile compito di assistere amorevolmente gli anziani.

L’idea di realizzare il sogno di un’abitazione di proprietà spinge, ad un certo punto Ricky ad arruolarsi come corriere in un grande magazzino per consegnare pacchi a domicilio. Per avviare l’attività occorre però vendere l’auto, con cui la moglie si reca al lavoro ed investire il ricavato nell’acquisto di un vecchio furgone evitando le più onerose spese del noleggio. E qui il capitale, sempre ottimo stratega, compie il suo primo passo, ti seduce e lusinga con la più attuale delle prospettive: diventare padrone di te stesso, passando dalla categoria dei semplici “corrieri dipendenti e con scarso spirito di iniziativa” a quella dei “lottatori” in proprio. Se scegli di essere autonomo, guadagnerai di più, ma non potrai sbagliare. Al minimo passo falso, al minimo fuori rotta sulla tabella di marcia delle consegne, al minimo incidente o ritardo, dovrai risarcire il capitale delle sue perdite e il capitale, come noto, non fa né sconti né opere di beneficenza.

Le regole del profitto, che non ammettono deroghe, sono incarnate molto bene dal capo magazziniere, una montagna di muscoli che detta, a memoria, le condizioni di chi tira il coltello dalla parte del manico ed ignora, o fa finta di ignorare, quelle di chi, invece, stringe la lama.

Il film ti percuote la bocca dello stomaco, ti incalza per le viscere e ti incolla alla vicenda.
Ricky, il neo “free lance”, opera per le strade cittadine a ritmi forzati; ritardato dal traffico ostile, raggiunge portoni ed ingressi, consegna pacchi e pacchetti, fa gli straordinari e si sbatte, dimostrando una caparbietà lavorativa fuori dal comune. Si sacrifica, insomma, come meglio può, in aderenza all’ideologia predicata dal titolare del magazzino che celebra i vincenti. Si sbatte per onorare i debiti e sostenere la famiglia. Ma le tensioni in casa si accendono, il rapporto con il figlio adolescente è più che delicato, quello con la moglie messo alla prova dalle difficoltà che lei incontra dopo aver rinunciato all’automobile.

Lo scenario rivela tutta la pressione dell’ideologia del successo che spinge all’esasperazione individualistica. Più il lavoratore si spreme e più la regola del profitto lo vampirizza.
Il capitalismo agisce come uno schema di natura primitiva dove neanche i più forti, blanditi dalle illusorie promesse, riescono a resistere.
Non ci sono sindacati nel film, non ci sono diritti da far rispettare, non ci sono rischi da condividere, non ci sono tolleranze da concedere. La ricchezza aziendale è sempre solo merito dell’impresa e mai dei lavoratori a cui, con munifica generosità, la stessa concede già il privilegio del lavoro.
I precari sono merce schiavile salariata a cui non è nemmeno riconosciuta l’eventualità di avariarsi.
Se non puoi lavorare un giorno devi trovarti un sostituto, se subisci un’aggressione e un furto devi rifondere i danni all’azienda, magari cautelandoti con un’assicurazione stipulata facendo un altro debito. Se non hai l’assicurazione sono fatti tuoi.

In una parola il film, volutamente, dimostra che nessuno, nemmeno il guerriero più motivato e resiliente può farcela da solo. E qui stà tutto la bravura di Loach, il merito di aprire uno spiraglio di coscienza collettiva. Seppure tu possa credere, come Ricky, alla tua capacità individuale, ti rendi conto che questa non è sufficiente per contrastare l’ingiustizia e salvare una famiglia.
E, in questo, il film di Loach parla ai lavoratori, molto meglio di tutte quelle parole, cosiddette di sinistra, che in questi anni globalizzati sono state consumate per non dire assolutamente nulla.

Pierangelo Scala