Visti da noi – Styx al Cineclub d’Ivrea

Vacanze e morte sullo scenario del mare al Cineclub d’Ivrea con il film Styx

Si sottolinea, in genere, che la prima causa della paura sia l’ignoranza: ti spaventa soprattutto ciò di cui non sei a conoscenza, ti allarma un piccolo rumore di cui ignori l’origine, un’ombra improvvisa che sfugge al controllo della razionalità.
Una velista che solca l’oceano da sola, circondata dall’immensità del mare, la prua puntata sull’orizzonte confuso tra acqua e cielo, sono di per sé elementi di una storia che desta nello spettatore brividi di inquietudine.
La barca si piega nel solco dell’onda e, da profano, ti chiedi come possa reggere, esile fuscello, all’arroganza del mare. La velista è un medico che sa il fatto suo, avvezza a condurre l’imbarcazione, abile a manovrarne gli strumenti, esperta nel dirigere lo scafo che taglia il mare corrusco. La protagonista veleggia completamente a suo agio, interprete e protagonista del viaggio, pronta a sfidarne ogni avversità. E’ lì per concedersi una vacanza, per ricuperare serenità dopo un periodo di lavoro piuttosto intenso. La sua meta, lasciata Gibilterra, è quella di raggiungere un’isola tropicale in mezzo all’Atlantico.
Il film, con ingegnosa scelta di regia, affida la sua colonna sonora al concerto onomatopeico della natura. Rumoreggiano il silenzio, lo sciabordio dell’acqua, il fruscio dell’aria tra i capelli della velista. Il vento gonfia la vela e la strapazza e poi lo schiocco della tela diventa urto di tempesta. Il sole affonda nelle nuvole e la pioggia sferza lo scafo. Sulla barca la vela riavvolta rivela l’albero nudo, esile asta di collegamento tra mare e cielo. Gomene che scorrono intorno ai verricelli, mani che lavorano febbrili, il corpo che lotta per governare la rotta. Le giornate di navigazione si alternano al buio delle notti quando l’orizzonte sprofonda in un nero mantello.

Soltanto le comunicazioni radio, seppur saltuarie, risuonano di voce umana poi, come emersa dal nulla, affiora la sagoma incerta di un peschereccio, una carcassa galleggiante di lamiere rugginose, un’isola alla deriva con il suo carico di disperati. Urla, richieste di aiuto, corpi che si gettano in mare. Un ragazzino raggiunge a nuoto la barca della velista. Lei lo soccorre e in un affannato avvinghiarsi al suo corpo, ormai peso inerte, riesce ad issarlo a bordo. Il ragazzo è allo stremo, ma è ancora vivo e laggiù, sul peschereccio alla deriva, altre vite implorano la salvezza.
All’improvviso la vacanza in solitaria si trasforma nell’incubo di una tragedia del mare, una di quelle a cui ci rimandano le cronache frequenti.
La velista lancia un s.o.s. e riceve disposizioni di non intervenire, di non interferire con le operazioni di soccorso che non tarderanno ad arrivare. D’altronde la sua barca è troppo piccola per ospitare i naufraghi alla deriva e lei, da sola, non può fare l’impossibile. Il tempo scorre inesorabile e le grida di soccorso sfumano, via via, nel vociare rabbioso del mare. Le inquadrature sul volto della velista raccontano il dilemma di una scelta a cui il tempo non concede rinvii. Che fare? Come agire quando ti trovi al cospetto dell’agonia altrui? Che valore hanno gli ordini, quali sono le priorità da seguire di fronte a chi annega? Il film estende il dramma della velista a tutti noi, ci rende partecipi e corresponsabili. Tutti siamo chiamati a riflettere. Non ci sono disposizioni che tengano di fronte alle vittime che il mare e la disperazione si portano via. Il sangue e il sale sulla loro pelle sono anche sulla nostra.
Quando i soccorsi giungono è già troppo tardi. I cadaveri vengono ricuperati e imbustati nei “body bag”, sacchi neri in forma di sarcofago; altri corpi sono ormai come pietre nel sudario del mare.
Chi ce l’ha fatta sfila estenuato nelle termica coperta di alluminio che lo protegge dal gelo. Ma la potenza del cinema, la sua verità, il significato da cogliere sta tutto nello sguardo annichilito della velista. I suoi occhi da medico, pur avvezzi al dolore, fissano d’azzurro il consumarsi della tragedia, la vivono con disarmata incredulità, e sono occhi diversi, di un’intensità ferita, che non vedranno mai più il mondo come prima.

Pierangelo Scala